Un amico e collega che da molti anni studia e pratica il buddismo mi ha detto: «La parabola dei ciechi e dell’elefante dovrebbe essere inserita nei libri di testo delle classi elementari». Tolstoj la pensava certamente come lui, dato che incluse la parabola nei suoi Libri di lettura dedicati all’istruzione dei fanciulli. Questa parabola si trova nel Canone buddista (Udana VI, 4, 66-69) e dice:
“C’era una volta un re che ordinò al suo ministro: «Riunisci in piazza tutti gli uomini del regno, che sono ciechi fin dalla nascita!». Il ministro eseguì e il re si recò sulla piazza, dov’erano riuniti i ciechi, quindi chiamò l’elefantiere, e disse: «Questo è l’elefante!». E fece toccare ad alcuni ciechi la testa, ad altri le orecchie, ad altri le zanne, ad altri la proboscide, ad altri il ventre, ad altri le gambe, ad altri il dietro, ad altri il membro, ad altri la coda; sempre a tutti dicendo: «Questo è l’elefante!». Poi il re si accostò ai ciechi e chiese loro se avessero toccato l’elefante. «Sì, Maestà!» risposero. «Allora ditemi a che cosa rassomiglia». E i ciechi cominciarono a descrivere a modo loro l’elefante. Quelli che avevano toccato la testa dissero che rassomigliava a una caldaia. Quelli che avevano toccato le orecchie dissero che rassomigliava ad un ventilabro. Quelli che avevano toccato le zanne che rassomigliava ad un vomere. Quelli che avevano toccato la proboscide che rassomigliava ad un manico d’aratro. Quelli che avevano toccato il ventre dissero che rassomigliava ad un granaio. Quelli che avevano toccato le gambe, dissero che rassomigliava a colonne. Quelli che avevano toccato il dietro, dissero che rassomigliava ad un mortaio. Quelli che avevano toccato il membro, dissero che rassomigliava ad un pestello. Quelli che avevano toccato la coda, dissero che rassomigliava ad uno scacciamosche. E, siccome ognuno sosteneva la sua opinione, cominciarono a discutere e finirono con l’accapigliarsi e percuotersi, gridando: «L’elefante rassomiglia a questo, non a quello! Non rassomiglia a questo, rassomiglia a quello!». E il re si divertì a quella zuffa”.
La parabola è molto significativa perché permette diverse interpretazioni e implicazioni. La prima: ogni persona tende a rappresentarsi l’elefante, cioè la realtà esterna, a seconda della personale percezione che ha tramite il proprio apparato sensoriale e conoscitivo, che è limitato, motivo per cui, anche di fronte alla radice di tutte le verità e di tutta la sapienza la persona può comprendere. soltanto ciò che la propria mente, in quel momento, è in grado di comprendere La filosofia aristotelico-tomista ha espresso questa verità con il seguente principio: quidquid recipitur, recipitur secundum recipientem. Ovvero, ogni soggetto comprende secondo la sua capacità di comprendere. Di conseguenza ciò che comprende sarebbe la «sua» verità, una versione tra le molte possibili e, per quanto «vera», in ogni caso parziale e incompleta, cioè relativa.
Perciò non è utile cedere alla desiderio di teorizzare. La realtà è assai variegata, complessa, ambigua, ma noi esseri umani, forse geneticamente programmati a fabbricarci visioni del mondo e a credere ad esse perché utili o necessarie alla sopravvivenza, tendiamo, una volta colto un raggio o un aspetto di verità, a elaborare, con grande azzardo, una teoria globale.
I sufi raccontano al riguardo quest’altra storiella: Berlicche era in giro per la Terra per addestrare il giovane apprendista Malacoda. A un tratto Malacoda esclamò: “Ehi, Berlicche… fa’ attenzione! Quell’uomo laggiù ha raccattato un pezzetto di verità!». Ma Berlicche ghignava soddisfatto, lisciandosi la barba caprina: «Non ti preoccupare. Io gliela farò organizzare”.
Un gesuita commentando un passo del vangelo secondo Marco in cui gli apostoli discutevano animatamente sui diavoli, disse: “Ecco: non capiscono e discutono. In questo modo nasce la teologia”.
Sempre in tema, nel Canone buddista (Dighanaka-sutta) troviamo la parabola del giovane vedovo. Costui aveva un figlio di cinque anni che amava più della sua stessa vita. Un giorno dovette lasciarlo a casa e uscire per affari. Arrivarono i banditi che saccheggiarono il villaggio, lo diedero alle fiamme e rapirono il bambino. Ritornato al villaggio, l’uomo trovò la casa bruciata e, lì accanto, il cadavere carbonizzato di un bambino. Credette che fosse il figlio. Pianse di dolore e cremò ciò che restava del corpo. Amava tanto il figlio che ne raccolse le ceneri in una borsa che portava sempre con sé. Mesi dopo, il figlio riuscì a scappare e ritornò al villaggio. Era notte fonda quando bussò alla porta. Il padre stringeva tra le braccia la borsa con le ceneri e singhiozzava. Non aprì la porta, benché il bambino dicesse di essere suo figlio. Era convinto che il figlio fosse morto e che alla porta battesse un bambino del villaggio, che voleva prendersi gioco del suo dolore. Il bambino fu costretto ad andarsene, e padre e figlio si perdettero per sempre. Se ci attacchiamo a un’idea e la riteniamo verità assoluta, potremmo trovarci anche noi nella situazione del padre vedovo. Pensando di possedere già la verità, non potremo aprire la mente per accoglierla, anche se la verità in persona bussasse alla nostra porta. La mente umana è come il paracadute: funziona solo se aperta. Credere di possedere la verità equivale ad autoimporsi una condizione di cecità. Per vederci meglio dovremmo, paradossalmente, ricordarci d’essere ciechi. Stando bene attenti a come palpiamo l’elefante, cioè la realtà, perché non si sa mai…